domenica 23 marzo 2008

Il Tibet vittima dell'ipocrisia della Comunità Internazionale


di Massimo Marini
dal blog
http://massimomarini.blogspot.com

La paura più grande che ha attraversato la schiena di un po' tutti gli attori della drammatica situazione tibetana, è stata quella di trovarsi alla vigilia di un nuovo periodo di guerra civile e sanguinaria repressione come quella - non l'unica ma probabilmente la più violenta - del biennio 1966/1968. Gli atti di vandalismo organizzato e mirato, la sistematica persecuzione delle persone, dei simboli, delle istituzioni tibetane perpetrate ininterrottamente e impunemente in quegli anni dall'esercito cinese, rappresentano ancora oggi uno shock indelebile nella coscienza collettiva del popolo tibetano. Per avere un ordine di grandezza della tragedia che il popolo tibetano ha attraversato e sta tutt'oggi subendo, bisogna ricordare che dal 1950 - anno in cui l'esercito di "liberazione" cinese entrò in Tibet con il pretesto di liberarlo dall'imperialismo inglese, approffittando della distrazione che la contemporanea guerra tra le due Coree generava - si contano circa 200 mila profughi (perlopiù rifiugiatisi in India), danni incalcolabili ad opere d'arte, edifici di culto, luoghi sacri, e quel che più deve far riflettere, circa un milione e mezzo di vittime. Come è facile comprendere, la stima delle vittime è assolutamente deficitaria e approssimativa, e probabilmente in difetto. Il governo cinese ha sistematicamente tentato di cancellare dalla faccia della terra il popolo tibetano - acutizzando la propria morsa repressiva nei periodi in cui il Dalai Lama si opponeva con più forza, magari con atti di diplomazia internazionale. Il motivo è chiaramente di natura economica e strategica: posizione ottimale posta tra India e Cina, imponenti e vitali riserve d'acqua, giacimenti di minerali preziosi come oro e soprattutto uranio. L'unica speranza per i tibetani e per le loro terre e la loro millenaria cultura, è rappresentata dal carisma del proprio leader, il Dalai Lama Tenzin Gyatso - premio Nobel per la Pace nel 1989 e dalla comunità internazionale. Una comunità internazionale che si è interessata al caso Tibet solo a corrente alternata e che non ha mai - e tuttora continua a non avere - il coraggio di boicottare, riprendere, denunciare con forza il gigante cinese. Nemmeno alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino si riesce a trovare la forza di porre delle ferme condizioni al regime comunista cinese, e ci si continua a piegare, con acrobazie verbali ipocrite e in alcuni casi addirittura pretestuose, alle perverse logiche di una realpolitik - al potere degli interessi economici e strategici in sostanza - che sta ammorbando la diplomazia internazionale. L'unica nota positiva che è venuta fuori da questa nuova crisi Cina/Tibet, è il ruolo da protagonista che la rete si è saputa ritagliare anche in questa drammatica circostanza. Nonostante le censure attuate sui principali portali Internet, alcuni blog privati sono riusciti a trasmettere al mondo intero immagini esclusive di quanto stava accadendo in Tibet nei giorni della rivolta, rendendo possibile una chiave di lettura della realtà dei fatti non più criptata dal governo cinese. In un sistema in cui l'informazione è sempre più in mano ai gruppi di potere, la potenzialità democratica che la rete offre rappresenta un importante tessera del mosaico della quali tutti dovremo tener conto.

1 commento:

Anonimo ha detto...

A proposito di interessi strategici, hai presente il motto latino "divide et impera"? Ho come la sensazione che faccia comodo a più di una persona, oltreoceano, la fomentazione della protesta tibetana. Il tibet è occupato dai tempi di Mao, e mi pare strano che il mondo si interessi ad esso solo ora che ha tanto a cui pensare per sè, data la crisi imminente, quando se ne sbatté allegramente i cosiddetti in tempi più prosperi. Che la crisi dell'occidente sia la vera chiave di lettura di queste vicende? Chissà.

Ah, ricordo a tutti che il tibet era una teocrazia religiosa del tutto simile allo stato pontificio: come mai nessuno al mondo chiese mai per conto della Chiesa la restituzione delle terre che lo stato italiano occupò durante il suo processo di unificazione? Ciò che Mao fece in Cina è del tutto simile: processo di unificazione territoriale e quindi conquista e quindi relegazione in disparte del governo precedente a guida teocratica. Interessante anche il fatto che il premio nobel per la pace, Dalai Lama, non sia in Cina a farsi picchiare assieme ai suoi monaci...ecco un altro punto in comune con le gerarchie cattoliche nell'Italia post-unione...
Anarcadia